Droga a Perugia, manette per 14

I dettagli dell’operazione ‘Kill shop’ spiegati in una conferenza stampa che si è svolta nel pomeriggio di venerdì: due anni di indagini

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di E.M.

Un’inchiesta durata due anni e 27 indagati. Si conclude così l’operazione della squadra mobile di Perugia sullo spaccio di droga nel capoluogo umbro, iniziata nel 2014, che ha portato allo scoperto un massiccio traffico di eroina e cocaina proveniente in gran parte dal Belgio. Il nome dato all’operazione è ‘Kill shop’, perché si tratta infatti di piccoli spacciatori che vendevano dosi spesso letali. Sono state emesse 17 ordinanze di custodia cautelare, delle quali 14 in carcere e tre con obbligo di firma, mentre gli altri dieci pusher sono ancora ricercati. Di nazionalità principalmente magrebina, tra loro c’era anche un italiano e una donna che faceva da ‘assaggiatrice’.

Lo spaccio Le zone caratteristiche dello spaccio erano quelli già noti: Monteluce, la stazione di Fontivegge e piazza del Bacio,  Ponte San Giovanni, via Cortonese, via del Macello. I quattotordici per cui è scattato l’ordine di arresti – non tutti sono stati presi – ci sono cittadini di diverse etnie, tra cui un italiano, il 47 enne orvietano Luca Visciola, che avrebbe trasportato personalmente grossi quantitativi di droga dalla Campania a Perugia. Per verificare la ‘qualità’ della merce Visciola usava una tossicodipendente che fungeva da assaggiatrice e alla quale è stato imposto l’obbligo di dimora. Un altro canale di approvvigionamento era quello che un cittadino tunisino aveva aperto con il Belgio.

Lo schema di spaccio I consumatori di droga erano in gran parte ‘trasfertisti’, che arrivavano a Perugia in giornata per procurarsi le dosi. I contatti avvenivano al telefono e subito dopo avvenuto lo scambio, molto spesso scattava il sequestro da parte della Polizia. «In questi anni abbiamo monitorato i viaggi – spiega il vicequestore Marco Chiacchiera – e abbiamo riscontrato una parcellizzazione dello spaccio: molti dei pusher compravano insieme in Campania da fornitori unici, in genere nigeriani, e poi si suddividevano le zone di Perugia». I punti nevralgici della rete di spaccio erano Fontivegge, Monteluce, via del Macello, via della Pescara e Ponte San Giovanni.

Una fotografia vecchia «Occorre sottolineare – aggiunge il vicequestore – che questa indagine è iniziata in un momento in cui la città era molto diversa e fotografa un altro tipo di realtà rispetto a quella attuale». Se prima la Polizia riceveva circa 50 chiamate al giorno, ora ne riceve una e le morti per overdose, per le quali gli scorsi anni Perugia deteneva il record, sono diminuite. Sono cambiate, secondo Chiacchiera, anche le competenze delle varie zone: «piazza del Bacio, ad esempio, adesso sta piano piano passando dai magrebini ai giovani nigeriani».

Via alla pianificazione «I tempi investigativi in questi casi sono molto lunghi – spiega il questore Francesco Messina – anche a causa della fluidità degli spacciatori che si spostano rapidamente da una parte all’altra. Per far fronte alla situazione di insicurezza generale che si era creata nel 2014 si è dovuto ricorrere anche ad altri strumenti come i rimpatri». Alcuni pusher, in passato, sono infatti stati riaccompagnati alla frontiera. Oggi i dati dicono che l’emergenza è minore e per questo, nelle parole del Questore, «si avrà modo di pianificare, per incidere pesantemente ad un livello più alto, quello dei fornitori, che richiede una maggiore attenzione».

Ottimismo «Sullo spaccio sono stati raggiunti ottimi risultati – spiega il Questore – adesso le emergenze sono altre, a partire dal terremoto». Perugia, secondo il capo della Polizia, non può essere considerata la “capitale della droga”: esiste una realtà di spaccio che deve essere tenuta sotto controllo, ma che «si può gestire», anche perché stanno diminuendo le morti per overdose e non ci sono regolazioni dei conti. «Perugia non si chiama Disneyland – conclude – ma non è una città insicura, bisogna lavorare più sotto il profilo della percezione della sicurezza che su quello della sicurezza».

 

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