«Università e città, binomio cruciale»

L’ex assessore comunale di Terni, Giorgio Armillei, lancia una provocazione e propone alcune idee per un dibattito serio

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Giorgio Armillei

di Giorgio Armillei

Terni è uno dei quattro sistemi territoriali urbani da (quasi) 200.000 abitanti dell’Italia centrale a non avere un’università. Lo sappiamo, da oltre 40 anni è sede decentrata – ora insieme a Narni – dell’Università di Perugia e l’impegno dell’Ateneo perugino non è qui in discussione.

Però non ci possiamo girare intorno: non è la stessa cosa. Decentrare è un discorso, decongestionare creando poli decisionali autonomi un altro, localizzare un nuovo ateneo un altro ancora. Non è colpa di nessuno: è la logica delle inerzie organizzative, istituzionali e di potere.

Negli ultimi novanta anni il numero delle città che ospitano atenei è più che raddoppiato. Erano 26 nel 1927, 43 nel 1971 e ora sono 58. I balzi più significativi dal punto di vista quantitativo li abbiamo avuti tra il 1961 e il 1971 (più 15 città) e tra il 1981 e il 2001 (più 8 città) in corrispondenza a fasi diverse della storia nazionale. Negli stessi anni del boom delle sedi si aveva il parallelo boom dei nuovi atenei. 26 degli attuali 85 (più 9 università telematiche) sono stati fondati dopo il 1990: tra questi 12 sono atenei statali e 14 atenei privati o comunque non statali. Dopo il 1990 sono stati fondati il 35 % degli atenei statali del dopoguerra e quasi il 90% di quelli privati.

La media per ateneo degli studenti iscritti agli atenei privati, al netto delle università telematiche, è di 6500 unità. Se escludiamo dal computo l’Università cattolica e l’Università Bocconi la media risulta di poco più di 3500 studenti per quelli che vengono classificati come piccoli atenei. La media dei piccoli atenei statali risulta invece più che doppia, circa 8000 iscritti. Non è forse inutile ricordare che il polo ternano narnese dell’Università di Perugia ha sfiorato i 3500 iscritti nei momenti di maggiore articolazione dell’offerta didattica.
 e l’innovazione delle aree urbane da 200.000 abitanti come Terni. A patto che siano ciascuna attrattiva per l’altra. L’Umbria ha al momento un saldo migratorio negativo: perde più studenti in uscita verso atenei di altre regioni di quanti ne guadagni in entrata. La competizione si fa sentire anche se la mobilità territoriale regionale degli studenti italiani resta bassa e riguarda solo il 21% degli iscritti. Ma in base a cosa gli studenti si muovono dalla loro città di residenza per frequentare corsi universitari? Guardano al dinamismo del mercato del lavoro della città di destinazione: cioè pensano che solo in città dinamiche eviteranno costi per spostarsi in un’altra città sede di lavoro e allo stesso tempo acquisiranno una rete di relazioni utili per una prima occupazione adeguata dopo la laurea. Guardano poi alla varietà e alla diversificazione dell’offerta formativa.

Non serve dunque mantenere in vita “università sotto casa”, soprattutto quando la demografia lancia allarmi sul prosciugamento del bacino di riferimento territoriale. Con stabili tassi di passaggio tra scuola superiore e università (il che significa tra il 50% e il 60%) se diminuisce la consistenza delle coorti demografiche – e non si attirano studenti da fuori – lo scenario di crisi nel medio periodo è inesorabile.

Come abbiamo visto nel paese si è giocata, sempre più spesso negli ultimi trenta anni, la carta dell’investimento privato, o comunque non statale, per la fondazione di nuovi atenei anche in città medie. Ancora oggi tuttavia questo tipo di offerta risulta fortemente sbilanciata in termini disciplinari rispetto a quella statale. In particolare è sottodimensionata nell’area scientifica: ingegneria, architettura, discipline dell’organizzazione, design. L’area più interessata dall’evoluzione del rapporto tra tra università e impresa, soprattutto in una prospettiva di innovazione industriale come quella evocata dall’etichetta industria 4.0 e dal settore delle industrie culturali e creative.

Come dare una risposta a tutto questo? Una via è quella della rete tra atenei prevista dall’ordinamento universitario italiano. Si identifica un obiettivo strategico che gli atenei da soli non riescono a raggiungere. Ci si mette insieme e si localizza l’investimento dove è più utile per raggiunge quell’obiettivo.

Il modello è flessibile ed efficace: basta guardare al memorandum di intesa sottoscritto dalle Università di Padova, Verona, Ca’ Foscari e IUAV Venezia su industria 4.0.

Un’altra è quella della fondazione di nuovi atenei privati che si posizionino esattamente all’incrocio tra le lacune dell’offerta formativa nazionale e le politiche per la crescita. Con un occhio alla strategia industria 4.0 nella quale la disponibilità e la continua trasformazione delle competenze giocano un ruolo determinante, anche oltre gli investimenti in capitale fisso. Un ateneo che guardi a industria 4.0 e allo stesso tempo a quello che offre il mercato.

L’Italia centrale non è solo turismo e leisure, è anche innovazione e innovazione industriale.

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