L’Umbria non è una regione per l’industria?

La provocatoria domanda viene dal segretario della Flai Cgil, Michele Greco

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di Michele Greco
Segretario generale Flai Cgil Umbria

Se riprendo i faldoni di un tempo, leggo accordi di aziende oramai perse nella storia o nella leggenda. Di industrie storiche che hanno costruito la democrazia economica della nostra regione, affrancando intere generazioni dalla mezzadria e dal mondo agricolo dei signorotti, ormai se ne contano più poche, e le altre che hanno resistito di certo hanno perso il lustro che le contornava. Fasi storiche che hanno rivelato la debolezza di un sistema industriale,quello umbro, perché ai margini dei cambiamenti a cui il mondo assisteva e incapace di agganciare le rotte della nuova economia globale.

Il dopo guerra ha visto il fiorire dell’industria, soprattutto alimentare, nella nostra regione, frutto dell’iniziativa e dell’inventiva di chi colse l’opportunità di agganciarsi al boom economico, così fino agli anni 70.

Dagli anni 80 in poi il mondo ha iniziato a correre in avanti espandendo i confini e la nostra regione si è ritrovata in un mare magnum smarrita e in preda alle correnti della globalizzazione. Fuori dalle grandi vie di comunicazione, in ritardo sulle nuove vie digitali, una politica industriale sacrificata in nome di una soluzione pubblica alle questioni occupazionali, e infine un ritardo delle imprese nel cogliere i cambiamenti e nell’affrontare una politica di investimenti capace di aggiornare il loro Know how e il processo produttivo.

Tutto ciò ha fatto arretrare la nostra regione dal punto di vista industriale, e così molte fabbriche hanno chiuso i battenti e poche “fortunate” sono state rilevate da gruppi multinazionali. Al via le grandi riorganizzazioni e giù i posti di lavoro, grande sviluppo sui marchi ma pochi investimenti sui processi produttivi, una breve primavera figlia della forza dei marchi e della tradizione cara ai consumatori. Per il resto nulla più, ancora pochi investimenti, ancora una pesante assenza di una politica industriale sia nazionale che regionale.

Ed oggi siamo agli sgoccioli, le due grandi industrie del settore alimentare Perugina e Colussi sono lì che arrancano e i lavoratori portano il fardelli di tutte queste “non condizioni” e le istituzioni e la politica pensano alle nomine delle asl. Invece di chiamare a responsabilità i soggetti economici rispetto al futuro di questa regione.

Che regione vogliamo? Senza industrie, senza grandi centri occupazionali senza l’idea di collettivizzazione dei diritti e delle lotte di avanzamento socio culturale.

Oppure una regione fatta di piccole start up, che seppur utili seppur figlie dell’innovazione e dell’intraprendenza giovanile, non possono rappresentare per fisiologia propria una soluzione economica per l’Umbria. Utili, estremamente utili per dare il senso di vitalità imprenditoriale, ma pur sempre figlie della debolezza di sistema, infatti le piccole realtà vincono i confini con la rete, spesso si
autofinanziano con l’intervento dei padri, quindi non sentono il peso dei limiti strutturali, ma che comunque incide sulla loro capacità di espansione.

Oppure una piccola regione legata al turismo e alle qualità del suo paesaggio? Anche qui certo va bene, ma quanto contano le vie di
comunicazione in questo settore per avere un espansione è un marketing capace di assimilare un livello occupazionale di valore. Ci basta la E45 in condizioni disastrate, e le direttici orizzontali costellati di lavori e di ritardi, e infine una rete ferroviaria penalizzante per la regione fuori dalle grandi direttrici nazionali e dalla grande velocità?.

Le grandi regioni sono tali per la presenza di fabbriche, le grandi nazioni sono figlie della loro industria, vedi la Germania, un grande
paese deve dotarsi di una politica industriale capace di definire gli asset su cui investire, e sicuramente l’Italia non puo fare a meno del settore alimentare sia in produzione che in trasformazione. Di certo l’Umbria questo asset lo sta smarrendo, non abbiamo più un pastificio, non abbiamo mai sviluppato l’indotto del cioccolato, stile Piemonte, e tanto meno valorizzato la presenza di importanti biscottifici stile Emilia Romagna.

Oggi tutto questo non c’è, è l’ultima occasione, ripartendo da queste due vertenze e dalle tante altre meno eclatanti che serpeggiano nel territorio per dare un volto nuovo all’industria alimentare della regione, ne va del futuro socio economico dell’Umbria.

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