La crisi demografica e della natalità in Italia e soprattutto in Umbria. Questa l’ultima tematica trattata da Aur, l’Agenzia Umbria Ricerche con un articolo a firma Giuseppe Coco. Di seguito il contenuto.

Le dinamiche demografiche, per loro natura, esigono uno sguardo lungo, capace di cogliere le trasformazioni silenziose che si producono nel tempo. Nulla, in questo ambito, accade all’improvviso: ogni tendenza si sedimenta, prende corpo, si intreccia con i mutamenti dell’economia, della cultura, delle aspirazioni individuali. Il calo delle nascite in Italia, e in Umbria, è un esempio paradigmatico di questa gradualità che si fa struttura. Non è un’emergenza, ma una condizione. Non è un’anomalia, ma un nuovo equilibrio demografico in via di stabilizzazione.
I numeri sono eloquenti. In Italia, tra il 2008 – anno in cui si registra il picco di nascite nel XI secolo – e il 2024, i nati sono passati da oltre 576 mila a poco più di 369 mila. Un crollo verticale, che ha pochi eguali nel panorama europeo. In Umbria, nello stesso periodo, si è scesi da 8.271 a 4.725: una riduzione di oltre il 42 per cento, significativamente più marcata di quella nazionale, che si aggira intorno al 36 per cento. Un passaggio che segna per l’Italia il superamento di una soglia simbolica e che, nel caso dell’Umbria, conferma la fine di una relativa tenuta demografica, sostituita da una tendenza al ribasso sempre più evidente.
Il 2008 appare oggi come un crinale netto, un punto di svolta oltre il quale la curva si inclina in modo costante. I grafici che accompagnano in coda queste righe non si limitano a illustrare un trend: raccontano una trasformazione profonda, quasi una parabola esistenziale, che tocca l’intero tessuto nazionale. Una traiettoria che, anno dopo anno, ci allontana da una società centrata sulla ‘natalità’.
L’età media al parto continua a crescere – oggi attorno ai 32-33 anni – rendendo più fragile ogni progetto familiare. Il modello della famiglia numerosa diventa residuale. Si consolida, semmai, quello del figlio unico, o addirittura dell’assenza di figli. È una transizione silenziosa ma profonda, che interroga non solo le politiche pubbliche, ma la nostra stessa idea di futuro.
Molto si è detto sulle ragioni economiche di questa tendenza: precarietà lavorativa, redditi insufficienti, costo della vita, carenza di servizi. Tutto vero. Ma non basta. Sempre più chiaramente si delinea una componente ulteriore, di natura culturale e simbolica. Avere figli non è più l’approdo naturale della vita adulta. È una possibilità, una fra le tante. Una scelta reversibile finché resta potenziale, ma irreversibile una volta compiuta. In questo spazio di esitazione si collocano le nuove generazioni.
Studi recenti mostrano come, nell’ultimo decennio, la percentuale di giovani italiani che desiderano almeno un figlio stia scendendo. E anche tra chi manifesta il desiderio di diventare genitore, si osserva una progressiva riduzione del numero ideale di figli. Contemporaneamente, cresce la quota di chi – soprattutto tra le donne – non ne vuole affatto. È una trasformazione silenziosa delle aspettative, dei codici identitari, dei progetti esistenziali. Una nuova normalità si affaccia, fatta di desideri più leggeri, meno vincolanti, più sensibili al bilancio tra autonomia e responsabilità, rispetto a una generazione precedente che vi leggeva invece un passaggio obbligato.
La pandemia in questo ha funzionato da catalizzatore. Ha accentuato la fragilità delle condizioni di vita, ha amplificato l’incertezza. Ed ha spostato l’asse delle priorità: il tempo libero è diventato bene primario, la realizzazione personale un valore non negoziabile. In questo contesto, la genitorialità rischia di assumere sempre più le sembianze di un impegno totalizzante, incompatibile con un’idea aperta e fluida di sé.
Eppure, non tutto è immobile. Un’indagine Istat del 2023 su “Bambini e ragazzi” restituisce un dato che invita alla cautela, ma anche alla riflessione. Il 69% dei giovanissimi tra gli 11 e i 19 anni immagina un futuro con dei figli, e oltre il 60% di loro ne vorrebbe due o più. È un orizzonte che, pur collocandosi in una fase di vita ancora fluida e sognante, indica che il desiderio di generare non è scomparso. È semmai rimasto sospeso, in attesa di condizioni favorevoli, ma anche di un nuovo senso.
Alla luce di questo scenario, il problema potrebbe non essere quello di invertire una tendenza, ma di accompagnarla verso un equilibrio diverso. Un equilibrio in cui la genitorialità non sia più vissuta come norma sociale né come dovere, ma come scelta pienamente consapevole. Un atto meditato, non automatico. E se le politiche pubbliche vorranno avere un ruolo, dovranno parlare non solo al portafoglio, ma anche all’immaginazione.