di Maria Luce Schillaci
«Nella giornata nazionale delle malattie rare, dopo 21 anni che lottiamo contro una malattia rara, posso tranquillamente affermare che siamo completamente abbandonati a noi stessi. Non c’è cura, non c’è assistenza, non c’è inclusione. Ogni giorno una lotta impari contro la malattia che ci porta via i nostri figli nati liberi e sani, contro il Comune, contro la Usl, contro la Regione e lo Stato».
Le parole scritte in un post sul suo profilo Faceboock sono di Patricia Turilli, mamma di Anna, una ragazza di 21 anni affetta dalla sindrome di Rett, una rara patologia genetica definita dalla scienza come ‘malattia neurodegenerativa dell’evoluzione progressiva’.

Interessa il sistema nervoso centrale, colpisce essenzialmente le donne ed è una delle cause più comuni di deficit cognitivo grave. La Rett classica è caratterizzata da sviluppo apparentemente normale nei primi 6-18 mesi di vita e, successivamente, perdita della motricità grossolana e fine già acquisita, perdita della capacità di interagire e socializzare e comparsa di movimenti stereotipati delle mani. La scoliosi è presente in molti pazienti attorno ai 25 anni.
Patricia è una mamma guerriera che non si arrende. Ma nella giornata delle malattie rare, è emerso anche il suo sfogo: «La mia esperienza mi fa capire che non si investe in ricerca e che le famiglie sono lasciate da sole senza terapie adeguate e senza assistenza. La legge 62 del 2024 è stata rinviata, la legge sul care giver è ferma da anni. Si fa un gran parlare – aggiunge Patricia – ma siamo da soli. Le famiglie si impoveriscono, si invecchiano e queste malattie non sono facili da gestire, hanno bisogno di terapie e fisioterapia continue, mentre questo non avviene».
Anna fa dieci sedute di fisioterapia alla Domus, poi interrompe per due mesi: «Questo non va bene – rimarca Patricia – perché la dovrebbe fare tutti i giorni, sempre. Dovrebbe fare piscina e a Terni non c’è una piscina terapeutica». Lo sfogo continua: «Ci paghiamo le medicine, alcune in parte, altre a prezzo pieno. In età adulta non siamo presi in carico, dopo la neuropsichiatria infantile sei in mano a nessuno e se ti succede qualcosa non sai dove sbattere la testa».
Anna vive a casa con la mamma. La notte viene ventilata perché la scoliosi le ha schiacciato un polmone. «Dovrebbe fare piscina e non è possibile – insiste Patricia -, non c’è un centro di riabilitazione fatto bene, non c’è un centro semiresidenziale degno. E quando la scuola finisce? Solitudine completa». Attorno ad Anna c’è tanto affetto e solidarietà.
Patrica è presidente dell’associazione senza scopo di lucro ‘UnvoloperAnna-Onlus’ che offre sostegno a chi ha una malattia rara e grave. La battaglia non si ferma: «Non c’è un progetto di vita pur essendo previsto dalla legge 328 del 2000 – dice -.Lo Stato mette sempre meno soldi ». L’appello accorato: «Si chiede un progetto di vita che tenga conto dei bisogni sanitari, sociali e di integrazione, dei bisogni dei genitori e delle famiglie. Tutti chiediamo questo».
«Ancora una volta – afferma Yari Lupattelli, amministratore di ‘Essere una soluzione’ e rappresentante di interessi presso la Camera – ci troviamo a parlare di disabilità e delle sue immense problematiche, ma nessuno pensa a come intervenire per dare un aiuto vero ed indispensabile. Si è parlato e ancora oggi si parla dei care giver ma non sempre questa modalità è la soluzione. Purtroppo la disabilità è un mondo variegato e va di conseguenza gestito in maniera diversa, ovvero con la massima consapevolezza e dialogo da parte di chi ne è affetto e della sua rete familiare e dall’altra parte la sensibilità degli enti competenti che comunque, ribadiamo, hanno delle normative da rispettare. È opportuno riaprire un tavolo di concertazione partendo dalle basi sopra indicate e rivedendo in parte anche la legge delega sulla disabilità che attualmente prevede un progetto di vita in cui al centro viene posta la persona disabile. Riteniamo del tutto inutile una legge scritta in questa maniera in quanto nessuno di noi ha bisogno di un progetto di vita per vivere. Non sono i singoli sostantivi che ci qualificano ma quello che riteniamo fondamentale è la consapevolezza del proprio status e quindi riprogettare una norma condivisa con gli enti con al centro le peculiarità delle tipologie di disabilità».