di P.C.
Sono giorni frenetici in Umbria, dove, come nel resto d’Italia, preoccupa il risalire della curva dei contagi Covid. Anche per questo, dalla Regione, nelle scorse settimane è partito il via libera alla effettuazione dei tamponi orofaringei per le strutture private che ne fanno richiesta e che ne hanno i requisiti, dopo che ad inizio estate era stato dato l’ok ai test sierologici. Ma l’iter delle autorizzazioni e la stessa modalità di svolgimento dei tamponi stanno creando confusione fra gli utenti e fra gli operatori del settore. Abbiamo provato a capire come funziona, al di là dei comunicati ufficiali, quello che a tutti gli effetti sta diventando il mercato dei test coronavirus.
SPECIALE CORONAVIRUS – UMBRIAON
Tre strutture autorizzate
Al momento, in Umbria, ci sono ufficialmente tre strutture autorizzate dalla Regione (ultimo aggiornamento al 26 agosto): Istituto Analisi Cliniche Minerva (via Pellas a Perugia), Laboratorio Galeno (Madonna Alta, Perugia: attualmente chiuso per ferie), Laboratorio di Analisi Alexander Fleming (Via San Michele Arcangelo a Bastia Umbra), ultimo ad essere inserito. Ma l’elenco è in aggiornamento e a breve dovrebbero entrare tanti altri che hanno richiesto di essere inseriti rispondendo all’avviso per acquisire manifestazioni di interesse. Del resto, è interesse della Regione (che così può allargare lo screening senza mettere ulteriormente sotto pressione le strutture pubbliche) ma soprattutto è interesse anche delle strutture private, che ci guadagnano e non poco.
L’avviso a fine luglio
Il 23 luglio, la Regione ha aperto alla possibilità di effettuare i test per la ricerca del virus con metodica rRT-PCR su tampone oro/rino-faringeo presso laboratori privati accreditati. «Le raccomandazioni internazionali – spiegava nella nota l’assessore Luca Coletto – puntano sui tre pilastri: estensione dei tamponi per individuare i soggetti asintomatici (testing), strategie di tracciatura dei casi (tracing) e loro adeguato isolamento (treatment), oltre alle indagini siero-epidemiologiche per conoscere la diffusione del virus nella popolazione».
Si spiegava che c’era una chiara procedura: «I laboratori privati accreditati che intendono eseguire i test dovranno darne comunicazione alla Direzione Regionale Salute e Welfare che, a sua volta, attiverà l’iter di valutazione della capacità diagnostica per poi, in caso di valutazione positiva, permettere l’inserimento nell’elenco dei laboratori privati che possono effettuare la ricerca.
Il laboratorio privato accreditato dovrà rispettare gli obblighi di immediata comunicazione al medico prescrittore del test e ai servizi di sanità pubblica di tutti i soggetti risultati positivi al test molecolare su tampone oro/rino-faringeo per l’attivazione della procedura di gestione del caso positivo. Inoltre, dovrà comunicare l’esito di tutti i test, sia positivi che negativi, all’azienda sanitaria locale, tramite inserimento nei sistemi informatici regionali di biosorveglianza. Il cittadino si sottopone a test molecolare su tampone oro/rino-faringeo presso tali Laboratori può effettuarlo esclusivamente a fronte di una prescrizione medica e previo consenso informato. I relativi costi sono a totale carico del cittadino».
L’iter autorizzativo
Occhio all’ultima frase. I privati quindi vengono pagati da chi sceglie di sottoporsi al tampone, a meno che non sia la sanità pubblica a disporlo per ragioni concrete; e in tal caso è la sanità pubblica a farsi carico dei costi. Per ricevere l’autorizzazione bisogna soddisfare una serie di requisiti: primo fra tutti la corrispondenza fra i propri risultati e quelli delle strutture pubbliche. Per valutare l’aderenza dei macchinari e delle procedure, i laboratori privati sono chiamate ad analizzare 15 tamponi precedentemente analizzati in ospedale: in caso di risultati analoghi, si ha la certezza del corretto funzionamento del sistema. Dopodiché bisogna dichiarare di aderire alle raccomandazioni per il corretto prelievo, conservazione e analisi sul tampone oro/rino-faringeo per la diagnosi di Covid-19, come da ‘Rapporto ISS COVID-19 n.11/2020‘. Infine, bisogna comunicare i dati delle positività alle Usl ed ai medici di base, per avviare tutto l’iter procedurale che si attiva ogni qualvolta viene intercettato un positivo. E alla fine comunicare tutti i dati (anche i tamponi negativi). Insomma, per farla breve: le strutture private devono comportarsi esattamente come se fossero pubbliche, garantendo efficacia del servizio e sicurezza per gli utenti. Ma è sempre così? No, non sempre. Possiamo dirlo a ragion veduta. Talvolta nel privato gli standard sono addirittura superiori, altre volte decisamente inferiori al pubblico.
Chi controlla le modalità di accesso?
La prima cosa che salta all’occhio, anche ad un non addetto ai lavori, è l’aspetto logistico dei centri che effettuano i tamponi. È palese che gli utenti (potenzialmente affetti da Covid) che si recano a fare un tampone debbano avere un percorso dedicato nell’accesso alla struttura sanitaria (ingressi separati, barriere, distanziamento garantito in ogni fase, sanificazione), per prevenire potenziali contagi. Funziona così nel pubblico, deve funzionare così anche nel privato. E negli uffici regionali hanno dato per scontato fosse così, basandosi sulle autodichiarazioni di chi fa richiesta. In realtà, però, nessuno è mai andato a controllare: «Se andiamo a fare anche i sopralluoghi non finiamo più», ci rispondono da palazzo Donini relativamente a questo aspetto.
Perché si fanno test anche in centri non autorizzati?
Altro aspetto che desta perlomeno qualche perplessità è il fatto che, da giorni, diversi centri in Umbria stiano pubblicizzando l’effettuazione di test molecolari (con tampone orofaringeo) nonostante non figurino nell’elenco ufficiale reso noto dalla Regione. Come è possibile? Chi controlla? Stando alle informazioni raccolte dalla nostra redazione, al momento non è prevista la modalità del ‘service’: i test possono essere effettuati solo presso la struttura che ha ricevuto autorizzazione. Eppure al momento – come detto – i test sono già possibili presso numerosi centri non autorizzati. Anche su questo punto da palazzo Donini sono arrivate risposte non chiarificatrici.
Serve la ricetta del medico (ma anche no)
Altri dubbi insorgono sulla presunta obbligatorietà della ricetta: serve o non serve? Si possono fare i test se il proprio medico non li prescrive? Formalmente, da delibera regionale, serve sempre la ricetta del medico. Ma tutte le strutture private hanno un direttore sanitario che può subentrare nella prescrizione e quindi dare il ‘lasciapassare’ al tampone. La differenza è che se il tampone viene ‘ordinato’ dal medico curante la persone è tecnicamente un ‘paziente’, quindi si passa attraverso Cup e si paga un ticket uguale per tutti.
Se, viceversa, si percorre la strada privata, si paga il prezzo deciso da ciascun centro. Facile immaginare cosa succede anche perché – come è fisiologico che sia – la struttura privata ha tutto l’interesse a ‘vendere’ i test ai propri clienti e quindi difficilmente il direttore sanitario negherà il pezzo di carta. Esattamente come avvenuto nelle ultime settimane con i test sierologici (quelli sul sangue, che intercettano gli anticorpi) ed esattamente come avviene con qualsiasi prestazione erogata dalle strutture private: se paghi, ti faccio il test. E i costi sono altini e fra l’altro variano sensibilmente da centro a centro. Per i sierologici, partendo dagli 80 dei primi tempi, si è arrivati ai circa 50 di questi giorni. Per i tamponi orofaringei si sale parecchio.
E l’aumento dei contagi e della psicosi potrebbe far aumentare la domanda e quindi anche i prezzi. È la legge del mercato.